[de ZuanneFrantziscu Pintore] |
Deo puru, chi a Renato Soru no l’apo botadu, so in pistighìngiu pro su mudore chi est rutu a s’ispessada subra de sa chistione limba sarda. Non pesso – e no lu so narende pro captatio benevolentiae, in fide – chi rutu Soru su moimentu s’intendat sena amparu e, duncas, “tutti a casa”. S’imàgine chi semus dende est però de gherreris chi si rendent a unu inimigu sena mancu averguare si inimigu b’est, a una pèntuma de inimigu mancari fraigadu in sos bisos ispramadores. Giòvanu, ma prenu de bonos sentidos, Micheli Ladu at avèrtidu: “Non penso chi siant galu sos tempos de su “Ballade bois...”. Finas ca in cussu “bois” b’at sa maioria de sos sardos botantes e in sos “bois” b’at amantiosos de sa limba sarda e inimigos gasi e totu comente de custas duas gasta bi nd’at in “nois”. Sos ballos, pro abarrare in sa paristòria de Micheli, sunt sos nostros. La naro mègius: sos ballos sunt sos nostros si cherimus ballare; no ant a los èssere si a un’ala sighit su lastimòngiu de chie perdet e a s’àtera sa barra de chie binchet. A un’ala e a s’àtera amus punnadu a pònnere sa chistione de sa limba sarda in su tzentru de sa pelea eletorale. Custa est una pelea pèrdida: s’economitzismu at bintu a manos prenas, a manca a dereta e finas in moimentos che a Irs e a Sardigna natzione (no est mancu in contu su Sdi) chi in sa gherra pro sa limba deviant mustrare sentidos chi, a bi so ca, non bi fiant. Si est a nos fundare in sas intervistas, iscritas e faveddadas, cun sos candidados presidentes, totus, b’at de prànghere pro sa mala sorte de sa limba. Neghe de sos giornalistas chi no ant pesadu sa chistione? Si podet dare. Ma unu chi de limba cheret faveddare, lu faghet, mancari dassende a un’ala àteras cosas. In un’artìculu essidu in Diariulimba puru, ponia una dimanda e un’imposta: “La lingua sarda non produce voti? Illusi”. S’illusu fia deo, ma non ca a beru cun sa limba sarda non si balàngiant cunsensos, si non ca nemos at chèrfidu pedire botos pro sa limba sarda. E mancari gasi totu sas coalitziones e sos partidos (francu su Sdi, a su chi cumparit) ant postu in su programma issoro chi sa limba cheret amparada. Su moimentu pro sa limba dae cue devet mòghere, pessende una cosa de importu mannu: est sa prima bia, a su chi m’amento, chi sa chistione de sa limba est gasi ispartinada. Non sunt tempos custos de sighire a si nàrrere a pare: eh, ma a tie non ti credo; eh, ma deo eja chi so prus crèdibile de tie. Est ora chi su moimentu pro sa limba imparet a giogare a poker e a nàrrere a chi lantzat sa chistione: “Vedo”. http://www.sotziulimbasarda.net |
S.A.Y.LI Sardus Abay Yahkw Libertadi Indipendentzia pro s'indipendentzia de sa terra nosta, fintzas a sa bitoria de s'acabu!
giovedì 19 marzo 2009
Sos ballos sunt semper sos nostros si cherimus ballare
martedì 3 marzo 2009
Glozel, uno scandalo che non finisce mai
dae Gigi Sanna
Se si è arrivati ad un vero e proprio scandalo, come ognuno avrà notato da questo Blog, a proposito dell’atteggiamento di una certa ‘parte’ dell’archeologia (parte dico: chè io non sono solito fare di ogni erba un fascio) e di una certa (dico ‘certa’) Sovrintendenza sulla documentazione scritta nuragica, uno scandalo ancora maggiore, stante la incredibile durata di esso, è quello dell’Accademia scientifica (con aggiunta delle maggiori istituzioni culturali francesi, comprese quelle museali) sul caso Glozel. Qui si toccano davvero le vette dell’assurdo, tanto da screditare, a causa di una enorme macchia che imbratta irreparabilmente pagine immacolate, un intero sistema di ricerca che pure, in campo storico, archeologico e linguistico, ha dato nel tempo delle altissime prove di serietà e di obiettività impareggiabili. E non c’è bisogno di parlarne perché dovrei parlare delle opere dei mostri sacri francesi della scienza mondiale del secolo scorso.
Tutti ormai sanno, tutti sappiamo. Più commissioni d’Inchiesta (salvo quella iniziale truffaldina, addomesticata e pilotata anche da spregevoli personaggi del mondo scientifico, ripetutamente condannati come tali dai tribunali di Cusset, Riom e di Parigi), hanno appurato che gli oggetti (tutti gli oggetti) di Glozel trovati nel Campo dei Morti della Fattoria dei Fradin in Francia, sono autentici. Enigmatici sì, ma autenticissimi. Non ci sono più dubbi.
L’ormai ultracentenario Emile Fradin è stato sempre un supergalantuomo e non ci sono più ombre sulla genuinità di quanto è stato, in dieci e più anni, rinvenuto nel suo terreno agricolo. I suoi detrattori non solo sono morti da tempo ma anche nel tempo. Forse un destino benigno e non sempre avverso gli ha concesso di raggiungere l’età che ha (103 anni), per gridare e testimoniare sino alla fine, a tutto il mondo, quasi sino all’ultimo respiro, che se è vero che esiste una vera Scienza, disinteressata e lungimirante ne esiste anche un’altra, mostruosamente egoistica e cieca, che in alveo scientifico in maniera subdola nasce, si sviluppa e prospera.
Una figlia snaturata che nessuno vorrebbe, ma che c’è: arruffona, superficiale, bugiarda, intrigante, prepotente, infingarda, negazionista. Legata spesso, ma solo per miseri contratti di dottorato e di ricerca servile, ai dogmi di una chiesa di pochissimi ‘eletti’, che di essi si avvalgono per vincolare i molti, per far sì che nulla si muova, che tutto il nuovo muoia nell’istante stesso in cui lo si propone. Mi verrebbe la voglia di riproporre Fromm e i filosofi della Scuola di Francoforte, quelli che non è un caso che abbiamo letto e riletto negli anni settanta, quando per noi allora contavano (e come contavano!) le diverse modalità dell’Avere e dell’Essere. Contava la ‘superba’ bellezza dell’essere vitali, critici, dinamici, propositivi, diffferenti.
Contava la voglia folle di amare, di sostituirci ai preti burocrati e altaristi, di esistere ‘con’ gli altri e per gli altri, e di essere genuini, autentici, in sintonia con l’universo che è vivo e bello perché si muove e continuamente si propone e ripropone ( e detto ‘en passant’, dal momento che mi fai vibrare certe corde con i tuoi bei post, caro Gianfranco, non era un caso che in quegli anni di genuino ‘movimento’, di vero ‘essere’, si siano poste non solo le fondamenta per la fondazione del Partito Sardo/Partidu Sardu più bello della sua storia ma anche per il sardismo ‘con coscienza di sé, attualmente…’diffuso’).
Ma oggi vedo che in Europa e nel mondo Fromm è giudicato un barbone del passato, uno straccio vecchio e vanamente proponibile: perché tutti agiscono secondo le ‘modalità dell’Avere’, cioè secondo le modalità dell’egoismo e della inautenticità più assoluti; persino là dove proprio non dovrebbero albergare, ovvero in ambito scientifico. Infatti la Scienza francese sa ma tace; e quando si degna di aprir bocca è solo per dire, con odiosa supponenza (che purtroppo esiste in tutte le latitudini), che per loro il caso Glozel non esiste. Anzi per la scienza francese, si afferma, il caso non è mai esistito.
Ma per capire sino in fondo a quale aberrante comportamento sia giunto un certo sistema universitario ‘chiuso’ e ‘paralizzante’ (chi vuol far carriera stia attento: non la macchi, anche solo pronunciando il nome Glozel!) valga la mia piccola esperienza in Francia, nella famosa Università di Lettere di Aix - en - Provence. Invitato, per interessamento del giornalista archeologo Pier Guy Vancis Stephanopulos, residente allora a Parigi, a tenere una conferenza sul ritrovamento della scrittura nuragica (in particolare quella delle tavolette di Tzricotu di Cabras), dissi che avrei parlato volentieri di documenti nuragici scritti ma anche di quelli glozeliani dal momento che, stando almeno alle risultanze dei miei studi, le due scritture per tipologia e per contenuti mostravano stupefacenti ma indiscutibili - perché facilmente dimostrabili - analogie. La risposta degli studiosi dell’Università fu però secca.
Per il ‘nuragico’ ogni apertura da parte della Facoltà (tanto da offrirmi a disposizione, eccezionalmente, un tempo di ben cinque ore), ma per il ‘glozeliano’ ogni chiusura, neppure un minuto di intervento. Perché avrei solo infastidito chi ormai da tempo, da tanto tempo, di Glozel non ne voleva proprio sentire. Praticamente: prendere così o lasciare. Stavo per rinunciare alla Conferenza quando mi venne in mente l’idea di parlare ‘comunque’ di Glozel, ma senza che né i docenti dell’istituto né gli studenti (la Conferenza era estesa anche a loro) se ne avvedessero. E infatti, quando arrivò il momento, dopo aver mostrato e commentato i documenti sardi, pregai loro di seguirmi su una certa argomentazione riguardante un oggetto ‘misterioso’ (era invece un noto oggetto della collezione del museo di Glozel, pubblicato nel Corpus des Inscriptions di Glozel del dott. Antonin Morlet) che poteva ‘anche supporsi’ (così dissi) rinvenuto nelle loro campagne (di Aix).
Detta argomentazione fu seguita, con vivissima partecipazione e interesse, sia sul piano epigrafico sia su quello dei contenuti; in particolare da J. Naudeau, docente di Storia delle Religioni orientali, esperto di fama mondiale. Quando però fu il momento, interruppi la finzione dicendo che l’oggetto era non di Aix ma di Glozel e chiesi subito scusa per non aver rispettato i patti. Sorse allora un silenzio per me (e per gli amici e collaboratori, ignari del ‘trucco’, che mi avevano seguito in quella trasferta) interminabile che fu però interrotto dal riso, o meglio, dal sorriso benevolo di professori e studenti; tanto benevolo che mi fu concesso di portare sino alla fine l’assunto sulla scrittura di Glozel, quello che avevo appena iniziato a sviluppare con il primo documento.
Così quando giunsi al commento dell’Apollino ‘chasseur’ del Museo (del quale parlai poi in una apposita Conferenza Internazionale tenuta a Cagliari nel 2005), spiegando che dalla evidente ’acrofonia iconografica contenuta nella statuina (lupo, pugnale, collana, punta di freccia, ecc.) non poteva che trattarsi del Lossia Cacciatore (quindi della più antica immagine di Apollo del Santuario di Pito), uno degli studiosi (un assiriologo oggi diventato mio carissimo amico) si è alzato per dire, alla luce di quella e delle altre prove, che il caso Glozel andava riaperto. Senza indugi.
Conoscendolo oggi molto bene credo che abbia fatto di tutto per parlarne e per discuterne con altri studiosi, soprattutto della Facoltà di Aix e di Lyon; ma conoscendo ancora di più la protervia e la ‘resistenza’ ormai quasi secolare degli avversari storici di Glozel, credo che quel suo generoso tentativo non sia, per ora, approdato proprio a nulla. Anzi forse gli avrà procurato non pochi fastidi, soprattutto se avrà fatto leva sulla mia misera ‘autorità’. I dogmi, si sa, sono dogmi. Fasulli sempre, per definizione scientifica, come tutti i dogmi. Ma ci sono, vivono e prosperano al riparo di ogni scandalo perché nessuna contraddizione li sfiora mai, santi come sono. Comunque, se questo ci può consolare, restano sempre uno scandalo. Nella bocca di tutti e, forse, anche nella coscienza di chi li sostiene.
http://gianfrancopintore.net
Se si è arrivati ad un vero e proprio scandalo, come ognuno avrà notato da questo Blog, a proposito dell’atteggiamento di una certa ‘parte’ dell’archeologia (parte dico: chè io non sono solito fare di ogni erba un fascio) e di una certa (dico ‘certa’) Sovrintendenza sulla documentazione scritta nuragica, uno scandalo ancora maggiore, stante la incredibile durata di esso, è quello dell’Accademia scientifica (con aggiunta delle maggiori istituzioni culturali francesi, comprese quelle museali) sul caso Glozel. Qui si toccano davvero le vette dell’assurdo, tanto da screditare, a causa di una enorme macchia che imbratta irreparabilmente pagine immacolate, un intero sistema di ricerca che pure, in campo storico, archeologico e linguistico, ha dato nel tempo delle altissime prove di serietà e di obiettività impareggiabili. E non c’è bisogno di parlarne perché dovrei parlare delle opere dei mostri sacri francesi della scienza mondiale del secolo scorso.
Tutti ormai sanno, tutti sappiamo. Più commissioni d’Inchiesta (salvo quella iniziale truffaldina, addomesticata e pilotata anche da spregevoli personaggi del mondo scientifico, ripetutamente condannati come tali dai tribunali di Cusset, Riom e di Parigi), hanno appurato che gli oggetti (tutti gli oggetti) di Glozel trovati nel Campo dei Morti della Fattoria dei Fradin in Francia, sono autentici. Enigmatici sì, ma autenticissimi. Non ci sono più dubbi.
L’ormai ultracentenario Emile Fradin è stato sempre un supergalantuomo e non ci sono più ombre sulla genuinità di quanto è stato, in dieci e più anni, rinvenuto nel suo terreno agricolo. I suoi detrattori non solo sono morti da tempo ma anche nel tempo. Forse un destino benigno e non sempre avverso gli ha concesso di raggiungere l’età che ha (103 anni), per gridare e testimoniare sino alla fine, a tutto il mondo, quasi sino all’ultimo respiro, che se è vero che esiste una vera Scienza, disinteressata e lungimirante ne esiste anche un’altra, mostruosamente egoistica e cieca, che in alveo scientifico in maniera subdola nasce, si sviluppa e prospera.
Una figlia snaturata che nessuno vorrebbe, ma che c’è: arruffona, superficiale, bugiarda, intrigante, prepotente, infingarda, negazionista. Legata spesso, ma solo per miseri contratti di dottorato e di ricerca servile, ai dogmi di una chiesa di pochissimi ‘eletti’, che di essi si avvalgono per vincolare i molti, per far sì che nulla si muova, che tutto il nuovo muoia nell’istante stesso in cui lo si propone. Mi verrebbe la voglia di riproporre Fromm e i filosofi della Scuola di Francoforte, quelli che non è un caso che abbiamo letto e riletto negli anni settanta, quando per noi allora contavano (e come contavano!) le diverse modalità dell’Avere e dell’Essere. Contava la ‘superba’ bellezza dell’essere vitali, critici, dinamici, propositivi, diffferenti.
Contava la voglia folle di amare, di sostituirci ai preti burocrati e altaristi, di esistere ‘con’ gli altri e per gli altri, e di essere genuini, autentici, in sintonia con l’universo che è vivo e bello perché si muove e continuamente si propone e ripropone ( e detto ‘en passant’, dal momento che mi fai vibrare certe corde con i tuoi bei post, caro Gianfranco, non era un caso che in quegli anni di genuino ‘movimento’, di vero ‘essere’, si siano poste non solo le fondamenta per la fondazione del Partito Sardo/Partidu Sardu più bello della sua storia ma anche per il sardismo ‘con coscienza di sé, attualmente…’diffuso’).
Ma oggi vedo che in Europa e nel mondo Fromm è giudicato un barbone del passato, uno straccio vecchio e vanamente proponibile: perché tutti agiscono secondo le ‘modalità dell’Avere’, cioè secondo le modalità dell’egoismo e della inautenticità più assoluti; persino là dove proprio non dovrebbero albergare, ovvero in ambito scientifico. Infatti la Scienza francese sa ma tace; e quando si degna di aprir bocca è solo per dire, con odiosa supponenza (che purtroppo esiste in tutte le latitudini), che per loro il caso Glozel non esiste. Anzi per la scienza francese, si afferma, il caso non è mai esistito.
Ma per capire sino in fondo a quale aberrante comportamento sia giunto un certo sistema universitario ‘chiuso’ e ‘paralizzante’ (chi vuol far carriera stia attento: non la macchi, anche solo pronunciando il nome Glozel!) valga la mia piccola esperienza in Francia, nella famosa Università di Lettere di Aix - en - Provence. Invitato, per interessamento del giornalista archeologo Pier Guy Vancis Stephanopulos, residente allora a Parigi, a tenere una conferenza sul ritrovamento della scrittura nuragica (in particolare quella delle tavolette di Tzricotu di Cabras), dissi che avrei parlato volentieri di documenti nuragici scritti ma anche di quelli glozeliani dal momento che, stando almeno alle risultanze dei miei studi, le due scritture per tipologia e per contenuti mostravano stupefacenti ma indiscutibili - perché facilmente dimostrabili - analogie. La risposta degli studiosi dell’Università fu però secca.
Per il ‘nuragico’ ogni apertura da parte della Facoltà (tanto da offrirmi a disposizione, eccezionalmente, un tempo di ben cinque ore), ma per il ‘glozeliano’ ogni chiusura, neppure un minuto di intervento. Perché avrei solo infastidito chi ormai da tempo, da tanto tempo, di Glozel non ne voleva proprio sentire. Praticamente: prendere così o lasciare. Stavo per rinunciare alla Conferenza quando mi venne in mente l’idea di parlare ‘comunque’ di Glozel, ma senza che né i docenti dell’istituto né gli studenti (la Conferenza era estesa anche a loro) se ne avvedessero. E infatti, quando arrivò il momento, dopo aver mostrato e commentato i documenti sardi, pregai loro di seguirmi su una certa argomentazione riguardante un oggetto ‘misterioso’ (era invece un noto oggetto della collezione del museo di Glozel, pubblicato nel Corpus des Inscriptions di Glozel del dott. Antonin Morlet) che poteva ‘anche supporsi’ (così dissi) rinvenuto nelle loro campagne (di Aix).
Detta argomentazione fu seguita, con vivissima partecipazione e interesse, sia sul piano epigrafico sia su quello dei contenuti; in particolare da J. Naudeau, docente di Storia delle Religioni orientali, esperto di fama mondiale. Quando però fu il momento, interruppi la finzione dicendo che l’oggetto era non di Aix ma di Glozel e chiesi subito scusa per non aver rispettato i patti. Sorse allora un silenzio per me (e per gli amici e collaboratori, ignari del ‘trucco’, che mi avevano seguito in quella trasferta) interminabile che fu però interrotto dal riso, o meglio, dal sorriso benevolo di professori e studenti; tanto benevolo che mi fu concesso di portare sino alla fine l’assunto sulla scrittura di Glozel, quello che avevo appena iniziato a sviluppare con il primo documento.
Così quando giunsi al commento dell’Apollino ‘chasseur’ del Museo (del quale parlai poi in una apposita Conferenza Internazionale tenuta a Cagliari nel 2005), spiegando che dalla evidente ’acrofonia iconografica contenuta nella statuina (lupo, pugnale, collana, punta di freccia, ecc.) non poteva che trattarsi del Lossia Cacciatore (quindi della più antica immagine di Apollo del Santuario di Pito), uno degli studiosi (un assiriologo oggi diventato mio carissimo amico) si è alzato per dire, alla luce di quella e delle altre prove, che il caso Glozel andava riaperto. Senza indugi.
Conoscendolo oggi molto bene credo che abbia fatto di tutto per parlarne e per discuterne con altri studiosi, soprattutto della Facoltà di Aix e di Lyon; ma conoscendo ancora di più la protervia e la ‘resistenza’ ormai quasi secolare degli avversari storici di Glozel, credo che quel suo generoso tentativo non sia, per ora, approdato proprio a nulla. Anzi forse gli avrà procurato non pochi fastidi, soprattutto se avrà fatto leva sulla mia misera ‘autorità’. I dogmi, si sa, sono dogmi. Fasulli sempre, per definizione scientifica, come tutti i dogmi. Ma ci sono, vivono e prosperano al riparo di ogni scandalo perché nessuna contraddizione li sfiora mai, santi come sono. Comunque, se questo ci può consolare, restano sempre uno scandalo. Nella bocca di tutti e, forse, anche nella coscienza di chi li sostiene.
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La prova decisiva: a noi la Stele di Nora
dae Gigi Sanna
Eccola, la prova decisiva. Ergo, a noi e, soprattutto, ai nostri padri la Stele di Nora! Naturalmente senza nulla togliere all’importanza dei cosiddetti ‘Fenici’ che hanno frequentato, nei primi secoli del primo Millennio a.C., le coste della Sardegna. Non fosse per altro perché una delle città (o più di una città) delle coste siro-palestinesi inventarono e rafforzarono quell’alfabeto di 22 lettere che tanta importanza avrebbe dovuto avere per la civiltà di tutto il bacino del Mediterraneo per un millennio e oltre. Compresa quindi la civiltà dei cosiddetti ‘Nuragici’, ovvero dei ŠRDN citati dalle fonti egiziane ed ugaritiche.
Una persona (che preferisce mantenere un rigoroso anonimato), ha trovato in una località della parte alta dell’Oristanese (e credo che ormai non si debba più attribuire al caso il fatto che le tracce della scrittura arcaica sarda si rinvengano soprattutto in area ‘arborense’, ovvero in un ben preciso territorio della Sardegna: Cabras, S.Vero Milis, Abbasanta, Paulilatino, Norbello, ecc.), un ciondolo di pietra grigio- scura, di forma ellissoidale (cm 7,5 x 4,3), contenente dei segni di scrittura graffiti in entrambe le facce. Nella prima insistono quattro segni, di tipologia ‘fenicia arcaica’, al di sotto dei quali stanno cinque lineette tracciate obliquamente, una delle quali accorpata al primo dei grafemi. Nella seconda sei segni, della stessa tipologia, ai quali si deve aggiungere, con ogni probabilità il ‘segno’ del foro passante dell’oggetto (che serviva per la cordicella) che, assieme ai due chiari trattini curvi superiori ‘a forcella’, fornisce l’aspetto di una testa di un bue o di un toro. I grafemi, data la notevole durezza della pietra, furono incisi, in tutta evidenza, con una punta metallica. Tutti sono chiaramente visibili. Il ‘foro’ mostra, molto evidenti, le tracce dello sfregamento della cordicella. La pietruzza anche se ingenuamente sottoposta, purtroppo, ad un’improvvida, perché energica, pulitura dallo strato argilloso da chi lo ha rinvenuto, è stato fotografato dal medesimo in entrambe le parti (v.foto), per nostra fortuna, lo stesso giorno del rinvenimento.
Procedendo (come di norma per la scrittura fenicia) in modo regressivo, si notano nella faccia A un ‘ayin, un bēth, un dāleth, un secondo ’āleph, nella faccia B un ’āleph, un bēth, uno šin, un rēš, un dāleth, un nūn. Unendo quindi la sequenza grafica della parte A con quella della parte B abbiamo: ‘bd’ ’b šrdn.
Ora, come ognuno può vedere, il testo è di quelli che si lasciano tradurre con estrema facilità. Infatti, nella prima faccia si trova scritta una parola (‘bd), sola o composta, molto nota in ambito epigrafico sardo e non (v. M.G.Amadasi Guzzo 1967. Le iscrizioni fenicie e puniche delle colonie in Occidente. Istituto di Studi del Vicino Oriente. Università di Roma, cap. III, pp. 87, 95, 97,105, 106, 110, 117, 119, 122, 123, 132), tipica, si direbbe, del lessico ‘fenicio’ e punico (con alfabeto neopunico) rinvenuto in Sardegna; parola che vuol dire ‘servo di’ (ad es. ‘abdmlqrt: ‘servo di’ mlqrt). Nella seconda si trovano le parole ’b che significa ‘padre’ e šrdn che significa ‘signore giudice’. Quindi il senso completo dell’intera iscrizione è: ‘servo del padre signore giudice’. Colui che portava il ciondolo, verisimilmente appeso al collo, era un devoto o, con maggior probabilità, un sacerdote di un tempio del Dio PADRE SHARDAN (il famoso Sardus Pater ‘Bab-y’ o ‘Bab-ay’ del tempio nuragico prima, ‘fenicio’(?) poi e quindi ‘romano’ di Antas di Fluminimaggiore: v., tra gli altri, Zucca 1989, Il tempio di Antas, Delfino ed.).
Non è il caso, ovviamente, per sensi di discrezione e di opportunità, di procedere, in questa sede, con ulteriori e più dettagliati commenti (sul piano epigrafico, paleografico, linguistico e storico-religioso) sull’iscrizione dell’oggetto. Né ci sembra ancora il momento di datare l’età del ciondolo con un approccio linguistico e/o attraverso la forma dei segni di tipologia fenicia, comunque arcaici.
Corre però l’obbligo di avvertire in questa ‘scheda’, volutamente sintetica e precipuamente informativa, che non si prenda sottogamba il ‘semplice’contenuto del ciondolo, anche e soprattutto perché si presenta con scrittura ‘a rebus’, tipica del nuragico; ed inoltre aggiungere, per i più distratti (e per gli scettici e i negazionisti), che esso tende a confermare, senza ombra di dubbi, quello che altri documenti, ma soprattutto due, il coccio di Orani ed il concio di Bosa, dicono in modo estremamente chiaro: che la stele di Nora non contiene un testo che parla di ‘signori di Kition e di Narna (Dupont-Sommer), né ‘di Nogar edificatori di templi per Puma-y’ (Fevrier), né di ‘conquiste o di eserciti’ (Cross, Barreca), né di ‘figli di Milkaton, fondatori di Nora’ (Dedola); e neppure mostra la sequenza sintattica B ŠRDN, ‘in Sardegna’ (Ugas) e meno ancora un contenuto con ‘ baldi garzoni pigiatori di mosto’ (Sauren).
La Stele di Nora è quello che da tempo (v. soprattutto Sardōa Grammata 2004, pp.316 -321 e 534 -538) sospettavamo che fosse: un documento con tenore attinente alla antica religione sarda ‘nuragica’ scritto presumibilmente quando essa era in auge in tutte le città della costa occidentale della Sardegna (Tharros, Cornus, Nora, Bosa, etc.) . In esso, ‘teste’ il nuovo documento, si trova scritto uno dei tre appellativi del Dio (gli altri due sono, nella stessa stele, ’aleph ‘toro’ e sb’ ‘dio degli eserciti stellari’), l’AB(a) Š(a)RD(a)N dei Sardi nuragici. Questi altri non è (lo rietiamo ancora una volta) se non la divinità intuita (anche se non individuata) magistralmente da Raffaele Pettazzoni agli inizi del secolo scorso, cioè yhwh. Ma, si badi, nella stele di Nora non c’è scritto solo ’AB ŠRDN : c’è scritto H ’AB ŠRDN, ovvero ‘Lui Padre Signore Giudice’.
Penso che se si fosse prestata solo un po’ di attenzione (ripeto, solo un po’), senza ingiustificabili ‘a priori’ e senza isterismi alla vista di novità non gradite, ai non pochi documenti nuragici scritti, quelli che andiamo proponendo (purtroppo faticosamente, per resistenze attive e passive) ormai da più di un decennio (soprattutto le tavolette di Tzricotu di Cabras, il sigillo di S.Imbenia di Alghero e il coccio di Orani), gli studiosi avrebbero appreso e compreso bene, tra le altre cose, uno degli aspetti più vistosi della lingua e della scrittura arcaica isolana della seconda metà del secondo millennio a.C.: l’uso esteso ed il valore del cosiddetto ‘determinativo’ (o ‘segno commentatore’ o ‘indicatore’) nel nuragico della Seconda metà del secondo Millennio a.C. Determinativo dato dal pronome semitico ‘indicativo’ (hē) che - ormai possiamo dirlo in tutta sicurezza - si adopera spesso, oltre che per il dio (yhw), per i frequentissimi suoi appellativi di ‘luminoso’, ‘padre’ e ‘toro’.
Devo aggiungere che mi è particolarmente gradito rendere di dominio pubblico questo documento (che, per ovvi motivi, dietro mia esortazione, si è deciso di consegnare quanto prima) dal momento che, fra qualche giorno, si festeggia il ‘Santo’ Natale. Tutti sanno che la nascita storica di Gesù, del figlio di Y(a)HW.Hē (così si deve scindere il cosiddetto ‘tetragramma’, con il segno ‘commentatore’ del pronome a parte), non ha niente a che fare con la data del ‘Natale’, essendo questa, astronomicamente parlando, semplicemente la rinascita o la ricorrenza della ‘nascita’ ciclica del Sole, divinità venerata, come si sa, da moltissime popolazioni antiche dell’Oriente e dell’Occidente. Ma nella Sardegna nuragica S‘AN-YHWH o ‘AB S ‘AN , il padre santo luminoso e taurino, era venerato proprio nel giorno astronomico come dimostrano, tra l’altro, i nuraghi, cioè i simboli templari di energia creativa del Dio, nel loro orientamento. Quando i primi cristiani, già nei primissimi secoli, vennero in Sardegna a propagandare la loro fede, obliterando, con ostinazione degna di miglior causa, il nome e i riti di YAHU/YAKU, ovvero del (B)abay sardo, non si rendevano conto, a motivo della perdita pressoché totale della memoria storica locale, che davano energicamente di roncola a se stessi oltre che agli indigeni. Comunque, stando le cose come credo che stiano, i Sardi (ŠRDN nuragici) sono storicamente il popolo che più di tutti gli altri, dopo i Palestinesi, può andare orgoglioso di questa antichissima ricorrenza per la divinità solare. Questa ormai è storia. Il ciondolo lo afferma, crediamo, senza discussioni. E, considerata la particolare divinità ‘sinaitica’, anche l’albero della vita, con tutto l’ ‘esercito’ delle palline e delle stelline luminose, teniamocelo ben caro come simbolo, ché non è certo di ascendenza nordica ma mediterranea.
http://gianfrancopintore.net
Eccola, la prova decisiva. Ergo, a noi e, soprattutto, ai nostri padri la Stele di Nora! Naturalmente senza nulla togliere all’importanza dei cosiddetti ‘Fenici’ che hanno frequentato, nei primi secoli del primo Millennio a.C., le coste della Sardegna. Non fosse per altro perché una delle città (o più di una città) delle coste siro-palestinesi inventarono e rafforzarono quell’alfabeto di 22 lettere che tanta importanza avrebbe dovuto avere per la civiltà di tutto il bacino del Mediterraneo per un millennio e oltre. Compresa quindi la civiltà dei cosiddetti ‘Nuragici’, ovvero dei ŠRDN citati dalle fonti egiziane ed ugaritiche.
Una persona (che preferisce mantenere un rigoroso anonimato), ha trovato in una località della parte alta dell’Oristanese (e credo che ormai non si debba più attribuire al caso il fatto che le tracce della scrittura arcaica sarda si rinvengano soprattutto in area ‘arborense’, ovvero in un ben preciso territorio della Sardegna: Cabras, S.Vero Milis, Abbasanta, Paulilatino, Norbello, ecc.), un ciondolo di pietra grigio- scura, di forma ellissoidale (cm 7,5 x 4,3), contenente dei segni di scrittura graffiti in entrambe le facce. Nella prima insistono quattro segni, di tipologia ‘fenicia arcaica’, al di sotto dei quali stanno cinque lineette tracciate obliquamente, una delle quali accorpata al primo dei grafemi. Nella seconda sei segni, della stessa tipologia, ai quali si deve aggiungere, con ogni probabilità il ‘segno’ del foro passante dell’oggetto (che serviva per la cordicella) che, assieme ai due chiari trattini curvi superiori ‘a forcella’, fornisce l’aspetto di una testa di un bue o di un toro. I grafemi, data la notevole durezza della pietra, furono incisi, in tutta evidenza, con una punta metallica. Tutti sono chiaramente visibili. Il ‘foro’ mostra, molto evidenti, le tracce dello sfregamento della cordicella. La pietruzza anche se ingenuamente sottoposta, purtroppo, ad un’improvvida, perché energica, pulitura dallo strato argilloso da chi lo ha rinvenuto, è stato fotografato dal medesimo in entrambe le parti (v.foto), per nostra fortuna, lo stesso giorno del rinvenimento.
Procedendo (come di norma per la scrittura fenicia) in modo regressivo, si notano nella faccia A un ‘ayin, un bēth, un dāleth, un secondo ’āleph, nella faccia B un ’āleph, un bēth, uno šin, un rēš, un dāleth, un nūn. Unendo quindi la sequenza grafica della parte A con quella della parte B abbiamo: ‘bd’ ’b šrdn.
Ora, come ognuno può vedere, il testo è di quelli che si lasciano tradurre con estrema facilità. Infatti, nella prima faccia si trova scritta una parola (‘bd), sola o composta, molto nota in ambito epigrafico sardo e non (v. M.G.Amadasi Guzzo 1967. Le iscrizioni fenicie e puniche delle colonie in Occidente. Istituto di Studi del Vicino Oriente. Università di Roma, cap. III, pp. 87, 95, 97,105, 106, 110, 117, 119, 122, 123, 132), tipica, si direbbe, del lessico ‘fenicio’ e punico (con alfabeto neopunico) rinvenuto in Sardegna; parola che vuol dire ‘servo di’ (ad es. ‘abdmlqrt: ‘servo di’ mlqrt). Nella seconda si trovano le parole ’b che significa ‘padre’ e šrdn che significa ‘signore giudice’. Quindi il senso completo dell’intera iscrizione è: ‘servo del padre signore giudice’. Colui che portava il ciondolo, verisimilmente appeso al collo, era un devoto o, con maggior probabilità, un sacerdote di un tempio del Dio PADRE SHARDAN (il famoso Sardus Pater ‘Bab-y’ o ‘Bab-ay’ del tempio nuragico prima, ‘fenicio’(?) poi e quindi ‘romano’ di Antas di Fluminimaggiore: v., tra gli altri, Zucca 1989, Il tempio di Antas, Delfino ed.).
Non è il caso, ovviamente, per sensi di discrezione e di opportunità, di procedere, in questa sede, con ulteriori e più dettagliati commenti (sul piano epigrafico, paleografico, linguistico e storico-religioso) sull’iscrizione dell’oggetto. Né ci sembra ancora il momento di datare l’età del ciondolo con un approccio linguistico e/o attraverso la forma dei segni di tipologia fenicia, comunque arcaici.
Corre però l’obbligo di avvertire in questa ‘scheda’, volutamente sintetica e precipuamente informativa, che non si prenda sottogamba il ‘semplice’contenuto del ciondolo, anche e soprattutto perché si presenta con scrittura ‘a rebus’, tipica del nuragico; ed inoltre aggiungere, per i più distratti (e per gli scettici e i negazionisti), che esso tende a confermare, senza ombra di dubbi, quello che altri documenti, ma soprattutto due, il coccio di Orani ed il concio di Bosa, dicono in modo estremamente chiaro: che la stele di Nora non contiene un testo che parla di ‘signori di Kition e di Narna (Dupont-Sommer), né ‘di Nogar edificatori di templi per Puma-y’ (Fevrier), né di ‘conquiste o di eserciti’ (Cross, Barreca), né di ‘figli di Milkaton, fondatori di Nora’ (Dedola); e neppure mostra la sequenza sintattica B ŠRDN, ‘in Sardegna’ (Ugas) e meno ancora un contenuto con ‘ baldi garzoni pigiatori di mosto’ (Sauren).
La Stele di Nora è quello che da tempo (v. soprattutto Sardōa Grammata 2004, pp.316 -321 e 534 -538) sospettavamo che fosse: un documento con tenore attinente alla antica religione sarda ‘nuragica’ scritto presumibilmente quando essa era in auge in tutte le città della costa occidentale della Sardegna (Tharros, Cornus, Nora, Bosa, etc.) . In esso, ‘teste’ il nuovo documento, si trova scritto uno dei tre appellativi del Dio (gli altri due sono, nella stessa stele, ’aleph ‘toro’ e sb’ ‘dio degli eserciti stellari’), l’AB(a) Š(a)RD(a)N dei Sardi nuragici. Questi altri non è (lo rietiamo ancora una volta) se non la divinità intuita (anche se non individuata) magistralmente da Raffaele Pettazzoni agli inizi del secolo scorso, cioè yhwh. Ma, si badi, nella stele di Nora non c’è scritto solo ’AB ŠRDN : c’è scritto H ’AB ŠRDN, ovvero ‘Lui Padre Signore Giudice’.
Penso che se si fosse prestata solo un po’ di attenzione (ripeto, solo un po’), senza ingiustificabili ‘a priori’ e senza isterismi alla vista di novità non gradite, ai non pochi documenti nuragici scritti, quelli che andiamo proponendo (purtroppo faticosamente, per resistenze attive e passive) ormai da più di un decennio (soprattutto le tavolette di Tzricotu di Cabras, il sigillo di S.Imbenia di Alghero e il coccio di Orani), gli studiosi avrebbero appreso e compreso bene, tra le altre cose, uno degli aspetti più vistosi della lingua e della scrittura arcaica isolana della seconda metà del secondo millennio a.C.: l’uso esteso ed il valore del cosiddetto ‘determinativo’ (o ‘segno commentatore’ o ‘indicatore’) nel nuragico della Seconda metà del secondo Millennio a.C. Determinativo dato dal pronome semitico ‘indicativo’ (hē) che - ormai possiamo dirlo in tutta sicurezza - si adopera spesso, oltre che per il dio (yhw), per i frequentissimi suoi appellativi di ‘luminoso’, ‘padre’ e ‘toro’.
Devo aggiungere che mi è particolarmente gradito rendere di dominio pubblico questo documento (che, per ovvi motivi, dietro mia esortazione, si è deciso di consegnare quanto prima) dal momento che, fra qualche giorno, si festeggia il ‘Santo’ Natale. Tutti sanno che la nascita storica di Gesù, del figlio di Y(a)HW.Hē (così si deve scindere il cosiddetto ‘tetragramma’, con il segno ‘commentatore’ del pronome a parte), non ha niente a che fare con la data del ‘Natale’, essendo questa, astronomicamente parlando, semplicemente la rinascita o la ricorrenza della ‘nascita’ ciclica del Sole, divinità venerata, come si sa, da moltissime popolazioni antiche dell’Oriente e dell’Occidente. Ma nella Sardegna nuragica S‘AN-YHWH o ‘AB S ‘AN , il padre santo luminoso e taurino, era venerato proprio nel giorno astronomico come dimostrano, tra l’altro, i nuraghi, cioè i simboli templari di energia creativa del Dio, nel loro orientamento. Quando i primi cristiani, già nei primissimi secoli, vennero in Sardegna a propagandare la loro fede, obliterando, con ostinazione degna di miglior causa, il nome e i riti di YAHU/YAKU, ovvero del (B)abay sardo, non si rendevano conto, a motivo della perdita pressoché totale della memoria storica locale, che davano energicamente di roncola a se stessi oltre che agli indigeni. Comunque, stando le cose come credo che stiano, i Sardi (ŠRDN nuragici) sono storicamente il popolo che più di tutti gli altri, dopo i Palestinesi, può andare orgoglioso di questa antichissima ricorrenza per la divinità solare. Questa ormai è storia. Il ciondolo lo afferma, crediamo, senza discussioni. E, considerata la particolare divinità ‘sinaitica’, anche l’albero della vita, con tutto l’ ‘esercito’ delle palline e delle stelline luminose, teniamocelo ben caro come simbolo, ché non è certo di ascendenza nordica ma mediterranea.
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